La situazione che si può osservare in Italia registra delle aggravanti rispetto al panorama globale, in merito alla mancanza di libertà e di reale competizione in un mercato che è libero solo in teoria.
Se da un lato la globalizzazione del mercato apre nuovi e spesso positivi spiragli di competizione e occupazione, dall’altro la necessità di maggiori capitali e risorse per mantenere tale la competitività , diventano spropositati per le PMI (piccole medie imprese).
Questi concetti, straripetuti e ormai banali, introducono però alle degenerazioni del sistema: laddove le PMI (soprattutto nel tessuto economico europeo) possono costituire (e quasi sempre riescono egregiamente) la punta di diamante di alcuni settori – là dove contino spirito d’innovazione, capacità di ricerca, piuttosto che la cura del dettaglio o ancora la conoscenza di determinati processi derivati direttamente da antiche tradizioni o peculiarità culturali di un popolo o di una regione – si registrano i tentativi di annientamento (della competizione) più illiberali e feroci.
Le grandi corporation non hanno tanto interesse nel fare la guerra a un pugno di piccole aziende prese singolarmente, agiscono piuttosto per affermare il proprio modello di sviluppo, marketing e distribuzione; tuttavia, se la grossa organizzazione non è sufficiente a far morire di asfissìa i competitori di piccolo taglio, allora cercano di l’intervento di carattere lobbyistico, per ottenere da governi(/legislatori) degli strumenti giuridico-legali che garantiscano loro il potere di rendere impossibile ai pesci piccoli il proseguimento delle loro attività (potrebbe essere paragonato a un avvelenamento cronico, per un intero strato del tessuto economico).
L’esempio della direttiva sui brevetti software, recentemente bocciata al Parlamento Europeo, calza a pennello: se il brevetto software fosse diventato legale, le PMI si sarebbero trovate tutte improvvisamente con un cappio intorno al collo (e a tirare la corda, i signori della BSA), condannate a camminare in un campo disseminato di oltre 30000 mine pronte a farle saltare in aria.
Ma come affermavo all’inizio, al panorama globale già preoccupante di per sé, si aggiungono i paradossi italiani, che a molti stranieri (specialmente di estrazione anglosassone) suonano come barzellette inventate di sana pianta (un po’ come se avessimo un leader politico che è anche proprietario dei più grandi gruppi editoriali di un Paese, non può essere reale, no?!? …)
Parto da un caso tra i più eclatanti: le telecomunicazioni.
Lo sviluppo di servizi basati su Internet (e non mi riferisco solo alla navigazione del WWW) avrebbe avuto maggiori benefici se in Italia non si fosse assistito (piuttosto passivamente) alla creazione di monopolista privato che – beffa nella beffa – non solo ereditò da un monopolio statale le infrastrutture (per intenderci, i doppini e le centrali di tutta Italia), ma acquisì anche il monopolio di fatto del servizio di telefonia fissa (situazione che sta mutando solo in questi ultimi anni).
In un Paese “normale”, si sarebbe probabilmente fatta una gara per l’acquisizione delle infrastrutture (e relativa manutenzione), e un’altra gara per affidare le concessioni dei servizi di telefonìa, un po’ come è stato fatto con il bando per l’UMTS.
Invece no: il “mago” Colaninno, prima perfeziona l’acquisizione di Olivetti da parte di Pirelli poi – ed era l’epoca del Governo Prodi – riesce a comprare Telecom Italia, regalando al gruppo di Tronchetti-Provera, della telefonia il monopolio di infrastrutture e servizi.
Questo scempio ha trasformato un monopolista statale (che, nella sua ottica, poteva anche avere un senso) in un monopolista privato, uccidendo il mercato TLC italiano per diversi anni e consegnandoci un penoso digital divide; d’altronde, Telecom Italia, non ha ancor oggi, interesse a portare ADSL e rinnovare le proprie centrali in zone in cui non vi sia una reale competizione (presente e imminente) di altri operatori, magari disposti a investire di tasca propria per conquistare nuove zone.
Siamo passati da un servizio che doveva essere garantito dallo stato (ma lo era?) ad una pletora di operatori che spesso non riescono a fornire un servizio a causa di un gestore delle infrastrutture che è allo stesso tempo loro concorrente… Assurdo!
Il quadro del “regalino” fatto alla Olivetti-Pirelli è presto completo, se si mettono nel conto:
- qualunque operatore (a parte Fastweb ove abbia portato la fibra) offra un servizio, deve comunque fare i conti con i lavori e i tempi di Telecom
- qualunque contratto (a parte Fastweb ove abbia portato la fibra) di un qualsivoglia operatore, non sottrae l’utente di telefonia fissa dal pagare il canone Telecom (che gli fornisce il doppino)
C’è chi, come Cortiana, insieme ad altri Verdi, ha proposto di tornare a nazionalizzare la Telecom, o almeno il gestore delle infrastrutture; io penso che ormai il guaio è fatto (la “privatizzazione-papocchio”) e che ci potrebbero essere alcuni modi (non alternativi, ma concorrenti) per rimediare:
- separare inequivocabilmente la società che gestisce le infrastrutture, intese come centrali, cavi, manutenzione e monitoraggio delle attività degli operatori (sottoposta direttamente a un organo di vigilanza dello Stato, come il Garante per le Telecomunicazioni)
- vendere (con modalità chiare e pulite) la parte di Telecom che si occupa dei servizi di telefonia (che ora, alla faccia dell’antitrust, accorperà la TIM che si occupa di telefonia mobile…)
- far pagare (in denaro, certo) a chi è colpevole e/o silenzioso complice di questa situazione, anche perché i nomi ci sarebbero già e i primi sono già citati in questo articolo
Certamente è pura utopia sperare di vedere tutti e tre questi punti soddisfatti, e dall’uno al tre il valore è inversamente proporzionale alla possibilità che succeda.
Ho parlato delle TLC perché lo trovo un caso a me vicino, ma di altri esempi simili in altri settori del mercato (non)libero italiano ce ne saranno… vi invito a parlarne nell’Area Discussioni.
In linea di massima, un po’ tutte le privatizzazioni a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni (Società Autostrade, Enel, Trenitalia, ecc…), non hanno certo lasciato una situazione di concorrenza e apertura del mercato, anzi; ma ognuno dei casi citati merita un capitolo a parte.
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liberismo
s. m. liberalismo economico; in partic., corrente di pensiero economico favorevole al libero scambio e ostile a ogni forma di protezionismo nel commercio internazionale.
neoliberìsmo
s.m.
TS econ., indirizzo del pensiero economico novecentesco che, in polemica sia con l’azione dei gruppi monopolistici sia con il dirigismo economico, postula l’esigenza di un corretto funzionamento della libera concorrenza e dell’economia di mercato, anche come salvaguardia delle libertà politiche e civili e dei diritti individuali
Oggi come oggi, né col liberismo né col neoliberismo, ci possiamo mettere a inquadrare la tendenza instaurata dai “poteri forti”, attraverso per esempio il WTO.
Se da un lato molte organizzazioni tendono ad estremizzare (leggi: “Wsf: appello finale e agenda dei movimenti sociali“) in maniera eccessivamente – dal mio punto di vista – ideologica (l’uso dell’espressione “dominio neoliberista” rasenta il demagogico, secondo me) la giusta e sentita esigenza di riportare l’uomo al centro del cosiddetto “mercato”, sono anche convinto che gran parte di questi movimenti costituiscano la forza di una consapevolezza collettiva che non deve mai mancare e che anzi deve tornare a farsi sentire, per non dimenticarci che non siamo dei semplici “consumatori” ma qualcosa di più…